Smart simplicity = autonomia + cooperazione

Enrico Viceconte
23 min readDec 1, 2020

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Di Enrico Viceconte

Invito alla lettura di Smart Simplicity. Sei regole per gestire la complessità senza diventare complicati. Di Yves Morieux e Peter Tollman. Egea, 2015

Nel “Learning talk” dedicato ai sistemi di performance management, gli esperti che sono intervenuti hanno mostrato una diffusa insoddisfazione per il modo in cui un’organizzazione immagina, progetta, realizza e utilizza sistemi per la misura e il controllo della performance. Sistemi che erano ritenuti adeguati fino a pochi anni fa non lo sono più, forse perché all’ipercompetizione, che favorisce le imprese che sanno affrontare la complessità meglio delle altre, le imprese reagiscono istintivamente aumentando la complicazione dei sistemi a disposizione, invece di immaginare altro.

Probabilmente questo accade perché le aziende tendono a rispondere alla “complessità” dei problemi con la “complicatezza” organizzativa: nelle strutture, nei processi e nei sistemi (di controllo). E questa non è una buona soluzione. Almeno così affermano gli autori del libro “Smart simplicity” che vi invito a leggere.

Edito, nell’edizione italiana, da Egea nel 2015, il volume è frutto di una ricerca svolta dal The Boston Consulting Group che ha raccolto dati sulle imprese a partire dal 1955. La complessità del business, si afferma, è cresciuta di sei volte dal 1955 ad oggi. E su questo fattore moltiplicativo così esatto potremmo discutere all’infinito, proprio perché la complessità è per sua natura difficilmente misurabile. 60 anni sono un bel lasso di tempo, che coincide più o meno con la durata della mia vita: sono un baby boomer nato nel 1954 e mi piacerebbe poter dire con così spavalda sicurezza che nel corso della mia vita le cose sono diventate “sei” volte più complesse. Come viene misurata la complessità? In base al numero di requisiti e obiettivi di performance che l’organizzazione deve recepire e raggiungere per stare sul mercato. Questa è una “metrica” che si basa su un’idea epistemologicamente interessante di complessità che, da sola, ci dovrebbe indurre a leggere il libro. Anche per non essere, eventualmente, d’accordo. Quando qualcuno propone un confronto tra Pelé, Maradona e Messi, qualcun altro ribatte che non sono raffrontabili perché in questi 60 anni i requisiti richiesti a un calciatore (e a una squadra) sono aumentati: bisogna, ad esempio, correre di più, giocare più partite, tirare più forte, dribblare difese più agguerrite, in campi da giuoco più internazionali ecc. Per il BCG questo significa che il calcio è diventato più “complesso”. Chissà se di sei volte più complesso.

Scrivono gli autori: “Nel 1955 le aziende si impegnavano a soddisfare da quattro a sette obiettivi di performance, oggi si impegnano a soddisfarne da 25 a 40.” Più o meno quello che accade a un’autovettura che oggi deve soddisfare una quantità di requisiti (a volte in contrasto tra loro) che non erano definiti nel 1955. Dal 15% al 50% degli obiettivi aziendali sono in conflitto tra loro e le “balanced scorecard” non aiutano abbastanza. Non se la prendano a male Kaplan e Norton.

Se la misura della complessità può far sorgere dubbi filosoficamente fondati, è ragionevole e possibile invece definire e usare un arbitrario e opportuno indicatore della “complicatezza” organizzativa (ad esempio contando, in ciascuna organizzazione, il numero di strutture, processi, comitati, sistemi e indicatori di performance). Alla BCG lo hanno fatto su un campione molto numeroso e il risultato è che questa è aumentata di ben 35 volte negli ultimi 60 anni.

Questo vorrebbe dire che mio padre, che nel 1955 era impiegato in una grande azienda manifatturiera, si trovava in un’organizzazione 35 volte meno complicata del suo corrispettivo di oggi. Non sono convintissimo neanche di questo numero, che mi sembra eccessivo. Ma il campione di BCG è davvero significativo e sono pronto ad accettare quel 35, avendo accettato il principio ed il metodo di misura ed essendo sicuro della serietà con cui BCG ha misurato.

Illustrazione tratta dalla presentazione della ricerca della BCG

Quel che è certo è che, per rispondere a obiettivi di performance sempre più numerosi a causa della complessità, i sottosistemi della Fiat 600 con cui mio padre andava al lavoro nel 1955 e le strutture, i processi e i sistemi dell’azienda molto fordista in cui mio padre lavorava non sarebbero adeguati oggi. Le automobili e le organizzazioni di oggi sono costrette ad essere molto più complicate. Non so se veramente per un fattore di moltiplicazione 35.

Vorrei far notare, ma nel libro se ne parla poco, il rapporto tra complicatezza e tecnologia. Una certa complicatezza, nell’autovettura è stata incorporata in schede elettroniche che governano e interconnettono il motore e in innovazioni nella meccanica, così come nell’organizzazione è stata incorporata nei sistemi ERP e di automazione (oggi addirittura di generazione 4.0). Ma questa è una percezione che probabilmente deriva dall’ingegnere che è in me. Oggi non accade più che si spezzi un semiasse, come accadeva spesso alla 600 di mio padre, ma accade che vada in tilt una centralina di controllo a microprocessore. Più o meno il paragone si può fare per un’organizzazione.

Il problema che rilevano al BCG, e che maggiormente ci interessa, è che questa complicatezza consiste in “labirinti organizzativi che rendono sempre più difficile migliorare la produttività e promuovere l’innovazione, e sono causa di demotivazione e scarso coinvolgimento nei collaboratori.”

Non occorre citare Kafka o ricordare i labirinti burocratici novecenteschi che rendevano inetti e demotivati gli Oblomov della Russia zarista e i Fantozzi all’Ufficio Sinistri, per notare che la complicatezza sia sempre stata perniciosa, almeno sul carattere degli individui. Convengo però con BCG che oggi le aziende non se la possano più permettere. Come abbiamo detto nel Learning Talk.

Per gestire la complessità, affermano al BCG, non servono però soluzioni “hard” basate sul management scientifico, né soluzioni “soft” basate sulla scuola delle relazioni umane, come il team building “occorre invece far leva sull’intelligenza delle persone. — dice il risvolto di copertina — Il libro spiega come, in termini di progettazione e di guida delle organizzazioni.”

Poggiando su una base scientifica che gli autori fanno risalire a Herbert Simon e a Thomas Schelling (pag. 21) e sul lavoro condotto dal BCG con oltre 500 aziende di settori diversi in più di 40 paesi, si individuano sei “regole di semplicità” per superare gli incubi di Kafka: gestire la complessità senza diventare complicati. Attraverso numerosi casi di studio che ne dimostrano in modo tangibile l’efficacia e svelano perché queste regole funzionano e come applicarle.

Come concludemmo alla fine del Learning Talk le imprese cercano oggi di ottenere da autonomia e cooperazione una spinta orizzontale verso la creazione del valore e la costruzione di un vantaggio competitivo. Cosa che non ottengono le imprese in cui i sistemi di misura e controllo sono verticali e stratificati e con silos funzionali. Autonomia e cooperazione hanno anche la capacità di infondere nuova energia alle persone dal momento che in un sistema l’energia non la apporta il sotto-sistema di controllo (in alto) ma il sotto-sistema controllato (in basso). L’energia si sprigiona in basso e il leader non può essere il motore.

Le sei regole della semplicità sono nella direzione dell’autonomia e della cooperazione, che sopperiscono al controllo verticale e alla divisione funzionale. Nulla di nuovo sotto il sole, ma il merito del libro è di aver racchiuso in sei “regole” tutta la materia lungamente dibattuta.

Vediamo le sei regole che, devo dire, non sono immediatamente deducibili dalla loro enunciazione, piuttosto vaga. Come, ad esempio la regola “estendere l’ombra del futuro”, che risulta un po’ermetica per chi non conosca gli sviluppi più avanzati della teoria di giochi.

Le sei regole di semplicità

1. Capire cosa fanno i collaboratori.

La regola serve a capire la performance effettiva dei collaboratori: che cosa fanno veramente e perché. Ottenuto il quadro della situazione, si possono usare le altre regole per intervenire. Questa regola suggerisce di colmare un gap di informazione e di conoscenza (da parte dei progettisti organizzativi) sui modi in cui le persone eseguono o, animate da buone intenzioni, tentano di eseguire i processi. Il contesto forgia i comportamenti e le persone sono più propense di quanto si creda a darsi da fare in autonomia e ragionevolezza per trovare risorse e risolvere problemi, cooperando con altri al di fuori di quanto formalmente prescritto. Chiedete ai collaboratori: loro sanno.

È una regola preliminare, che invita a partire dai fatti e dallo “shop floor”, come accade nel movimento per la qualità e il “lean thinking” di matrice giapponese.

2. Rafforzare gli integratori.

La regola consiste nel dare ai dipartimenti e agli individui il potere e i benefici necessari a incoraggiare la cooperazione. Animati dallo spirito della regola precedente, si deve fare uno sforzo di riconoscere quali sono quelle persone e quelle unità organizzative che fungono da raccordo orizzontale tra fasi del processo e dare ad essi la giusta importanza e le giuste leve. Gli integratori, se rafforzati, consentono a ciascuno di trarre vantaggio dalla cooperazione degli altri. Con meno coordinatori e più integratori l’organizzazione comincia a ruotare di 90° nella direzione (orizzontale) del flusso di valore.

Un “integratore” è antropologicamente diverso da un “coordinatore”. Gli autori ne fanno un identikit. Gli “integratori” hanno un approccio passionale al loro lavoro: consapevoli di stare in mezzo a un conflitto tra “requirement” da soddisfare e “constraint” da rispettare, sono insofferenti: amano il proprio lavoro e sono felici quando i vincoli non gli impediscono di soddisfare la loro voglia di produrre valore. Viceversa lo odiano quando qualcosa, spesso dall’alto, li intralcia nel loro missione di soddisfare i requirement. Li avete individuati? Allora puntate su di loro più che sui coordinatori! Sottraeteli alle metriche di performance perché, come dicemmo nel Learning talk, il valore aggiunto della cooperazione è difficilmente misurabile.

3. Aumentare la quantità totale di potere.

Con la regola precedente abbiamo dato più potere agli integratori. Lo stiamo sottraendo ai coordinatori? La risposta è: sì e no. La risposta è sì, se consideriamo solo il potere di decidere cosa è importante fare per soddisfare i requirement. La risposta è no se, nel contempo, stiamo dando nuovo potere ai coordinatori. Questo potrà accadere se non consideriamo il gioco del potere come un gioco a somma zero. Se aumentiamo la “quantità di potere” complessiva in azienda ce ne sarà per tutti. Più potere complessivo, distribuito diversamente. Con quale potere compensare quello perso dai coordinatori a favore degli integratori? Ovviamente quello orientato alla soddisfazione dei molteplici requirement prodotti dalla complessità e, ancora una volta, alla cooperazione orizzontale.

Questa regola mostra come la creazione di nuovo potere consenta all’organizzazione di mobilitare le persone, a tutti i livelli organizzativi, per soddisfare i diversi obiettivi di performance dettati dalla complessità.

C’è, però, un piccolo problema. L’impresa non è un’isola: il potere complessivo che ha, deriva dal potere che essa riesce ad avere in un settore industriale e in una supply chain. Quando un settore industriale non è in espansione, oppure è in declino, e/o quando una supply chain non è competitiva, il gioco può diventare a somma negativa. Ci sono, per ciascuna impresa, meno risorse da allocare e più constraint. E questo si ripercuote fino ai ruoli organizzativi. Le “slack resource”, che favoriscono l’innovazione e una certa discrezionalità diffusa, si assottigliano. E la tentazione è ridare più potere, nella tempesta, ai comandanti: irrigidire la catena di comando e controllo. I casi aziendali presentati nel libro, alcuni dei quali si riferiscono ad imprese in difficoltà, invitano invece a mantenere la calma e a fidarsi della cooperazione produttiva di cui sono capaci le persone. Anche quando la nave è nella tempesta o tra gli scogli di una secca. E’ proprio nella crisi, in cui è evidente il senso di essere “tutti nella stessa barca”, che un integratore efficace deve prevalere su un coordinatore inefficace.

4. Aumentare la reciprocità.

La metafora di “essere tutti nella stessa barca” ha sempre mobilitato verso la cooperazione. La regola della reciprocità si ispira a quella metafora. Gli autori usano un’altra metafora per spiegare la differenza tra evitare il conflitto per le risorse e cooperare. In un nucleo familiare con marito e moglie si può evitare il conflitto sul programma TV da seguire la sera se si acquistano due televisori. Il conflitto è evitato ma non c’è stata cooperazione. Se si stabilisce la regola che il televisore in casa è uno solo, come accadeva fino a qualche anno fa, la cooperazione, nella scelta del canale diventa obbligatoria. E magari si decide, la sera, di fare qualcosa di diverso dal guardare la TV. Aumentare il potere complessivo (regola 3) e sottrarre risorse (regola 4) sono due regole che, combinate, favoriscono il riconoscimento delle mutue interdipendenze e dell’utilità della cooperazione per giungere al risultato. Questa è una delle regole che maggiormente mettono in discussione alcuni classiche idee (o miti) del management che qui elenchiamo:

1) Avere sempre obiettivi chiari, definiti e misurabili. Errato: l’oggetto della cooperazione è poco definibile a priori e l’efficacia con cui due persone cooperano è difficilmente misurabile.

2) Se ognuno è responsabile nessuno è responsabile. Errato: la cooperazione non diluisce la responsabilità individuale. In una gara di staffetta, se cade il testimone al cambio, esiste una chiara responsabilità di ciascuno, nel non essersi coordinati bene, oltre a non essersi allenato individualmente bene a passare o afferrare il testimone.

3) Ciascuno deve essere valutato per ciò di cui è individualmente “accountable”. Errato: se si vuole maggiore cooperazione la valutazione della performance del team deve avere maggiore importanza di quella individuale.

Con la quarta regola e i tre miti manageriali sfatati, cominciamo a capire bene, finalmente, cosa non va coi sistemi di performance management attuali ed anche a domandarci se sono così SMART i principi con cui valutiamo solitamente. L’essere smart del modello di Smart Simplicity del BCG ci sembra esattamente l’opposto dell’essere SMART dei consueti sistemi gestionali.

5. Estendere l’ombra del futuro.

Questa è la regola enunciata in modo più criptico. Ma il concetto di “ombra del futuro”, di cui parleremo nella seconda parte di questa recensione, non è solo un’immagine suggestiva ma deriva dagli sviluppi più interessanti della teoria dei giochi. Detto in modo più semplice, è necessario che le persone abbiano un riscontro diretto ed immediato degli effetti delle proprie azioni e comportamenti. Azioni e comportamenti che hanno effetto a valle del flusso di valore, ad esempio quando agevolo lo staffettista a valle, mettendolo in grado di poter afferrare più agevolmente il testimone. Un effetto che si verifica (ma non è detto che si manifesti con evidenza) nel futuro immediato (la fase a valle della staffetta) o dopo un po’di tempo (il risultato della singola gara e, infine, delle Olimpiadi). La collaborazione prolungata nel tempo rinforza i comportamenti e le scelte improntate alla cooperazione.

È evidente quanto questa regola sia collegata al design dei sistemi di performance management che, come si diceva nel learning talk, devono prevedere molteplici fonti di feedback (e di feed-foreward), oltre a quella del capo diretto e che il feedback non possa avvenire a cadenze programmate ed in logica top-down.

6. Premiare chi coopera.

Dopo aver messo in discussione gli obiettivi della valutazione e i meccanismi di feedback, siamo ai sistemi incentivanti che, come si diceva nel learning talk, se mal congegnati, possono fare disastri. Gli autori, che partono da premesse teoriche fondate sulla teoria dei giochi e sui modelli creati da Thomas Schelling, partano dal principio che le persone si comportano in un modo oppure in un altro spinti da una percezione di rischio. Applicare la sesta regola significa rendere e far percepire più rischioso per l’individuo il non cooperare rispetto al cooperare. Visto da un’altra prospettiva, rendere e far apparire più vantaggiosa la cooperazione rispetto al risultato individuale. Come fare? Evitando la caccia al colpevole e favorendo chi cerca le cause di un problema; scoraggiando lo scaricabarile; non aspettando che la persona venga a sapere dal suo capo che non è riuscito a soddisfare i requirement del cliente a valle (e di quello finale); assicurarsi che il collaboratore si informi col suo “cliente” del grado di soddisfazione; assicurarsi che il capo chieda continuamente al collaboratore di cosa ha bisogno per soddisfare il proprio cliente a valle; evitare che ai coordinatori sia attribuito l’arbitrato sulle responsabilità di un errore.

Dall’organizzazione gerarchica a quella orientata all’autonomia

La risposta classica alla complessità, quella che viene ritenuta ormai inadeguata, è “gerarchica”, vale a dire improntata alla centralizzazione del controllo, e alla divisione funzionale, con relativa dipendenza verticale e la possibile creazione di una nuova funzione ogni volta che mi viene richiesto un nuovo obiettivo di performance. In un mondo sei volte più complesso quale sarà la riposta giusta per non creare un’organizzazione 35 volte più complicata? Quella orientata all’autonomia (che allenta i vincoli verticali) e alla cooperazione (che è una interdipendenza orizzontale). Abbiamo ruotato di 90° la prospettiva. Le regole si fondano dunque sul presupposto che la chiave per la gestione della complessità sia una combinazione di autonomia e cooperazione. “L’autonomia rafforza la flessibilità e l’agilità del singolo individuo; la cooperazione crea una serie di sinergie cosicché il contributo di ciascuno si moltiplica a vantaggio dell’efficacia del gruppo”. Come sempre accade nella progettazione organizzativa, quello che levo da una parte devo aggiungerlo da un’altra, compensando e trovando un nuovo equilibrio: levo vincoli verticali (più autonomia) ma devo aggiungere più coordinamento orizzontale e cooperazione. Perseguendo una maggiore flessibilità, adattabilità velocità di risposta devo compensare la troppa libertà con un’azione che, orizzontalmente, mi costringe a darmi da fare nel coordinarmi e a collaborare con altri, anche fuori dal mio team, al risultato. Era esattamente quello che ci eravamo detti parlando di sistemi di performance management del futuro.

L’obiettivo delle regole di semplicità è di creare le condizioni per cui l’autonomia del singolo individuo (nell’uso del proprio buon senso, della propria conoscenza dei fatti e delle proprie energie) sia resa più efficace e messa a valore dagli altri e ciascuno metta la propria autonomia al servizio di questo. Le sei regole sono pensate per ottenere un ambiente organizzativo in cui cooperare sia la scelta meno rischiosa per tutti. “Le regole di semplicità non servono a controllare collaboratori con le imposizioni di linee guida e processi formali; servono invece a creare un ambiente in cui le persone lavorano insieme per trovare soluzioni creative a problemi complessi”.

Le prime tre regole sono formulate per incoraggiare i collaboratori a utilizzare la propria intelligenza ed energia sul luogo di lavoro, fornendo loro informazioni rilevanti, spazio di manovra, potere e la risorsa della cooperazione.

La quarta, la quinta e la sesta regola di semplicità sono formulate per incoraggiare gli individui ad affrontare la complessità e a usare la propria autonomia per cooperare con gli altri. Ciò avviene mediante l’uso intelligente dei feedback. Che evidenziano immediatamente le conseguenze delle azioni del singolo senza che sia necessario ricorrere ad altri strumenti di supervisione, oppure alla burocrazia dei sistemi di controllo e agli incentivi.

Pertanto, le prime tre regole sfruttano l’effetto del gruppo per favorire l’autonomia individuale, le altre tre regole stimolano gli individui a mettere la propria autonomia al servizio del gruppo in forma di cooperazione. Le soluzioni frutto della cooperazione, dove ciascuno mette a disposizione del gruppo tutta la propria energia intelligenza, sono migliori sia di quelle predefinite o inglobate nelle procedure, sia di quelle ottenute da gruppi di collaborazione informali, basati sulla ricerca del consenso.

La complessità ci chiede di soddisfare molti requisiti, non di avere sistemi più articolati

La creazione di strutture, unità funzionali specializzate, livelli organizzativi, processi, comitati, metriche e KPI è la risposta tipica delle organizzazioni alla richiesta di soddisfare un maggior numero di obiettivi (anche in conflitto tra loro) che è tipica di un contesto competitivo più “complesso”. Il Boston Consulting Group ha misurato sia la complessità con cui oggi (diversamente da ieri) si confrontano le imprese di diversi settori, sia la loro risposta in termini di “complicatezza” organizzativa. L’esito di questa ricerca è stato che, negli ultimi 55 anni, a fronte di un aumento di complessità media di 6 volte, la complicatezza delle organizzazione è cresciuta mediamente di 35 volte. Questo è il dato empirico derivante da un campione molto grande. Ma lo studio BCG non si ferma all’osservazione empirica del fenomeno e ricorre a un modello meccanicistico dell’organizzazione. E qui lo studio diventa molto intrigante perché consente di dare risposta alla mia domanda perplessa della prima parte di questo post: “l’azienda in cui lavorava mio padre 55 anni fa era davvero 35 volte meno complicata di un’azienda, dello stesso settore e dimensione, di oggi?” Se applichiamo un modello meccanicistico dell’organizzazione presupponiamo che una macchina (un’automobile o un’organizzazione) “abbia tante parti quante sono le esigenze che deve soddisfare. N parti per N esigenze. Ciascuna delle N parti deve coordinarsi con le altre N-1 parti, perciò avremo N(N-1)/2 esigenze di coordinamento. Sappiamo che il numero di esigenze è aumentato di 6 volte negli ultimi 55 anni. Oggi ci sono 6N esigenze invece di N. Il nostro modello meccanicistico diventa 6N(6N-1)/2. Questo equivale a 36 volte il valore originale” (Nota a Pag. 123)[1]. Numero che è praticamente uguale a quello del modello empirico (35 volte), sennonché, forse, organizzazioni altamente “meccaniche” si riservano ancora un minimo di “organicità” a scapito dell’esigenza di coordinamento.

Ma tutta questa complicatezza che risponde a un modello meccanicistico dell’organizzazione produce valore? Come è emerso dal Learning Talk sui sistemi di performance management, nel quale si segnalava la domanda diffusa di metriche e sistemi in grado di favorire l’agilità, la competizione si sposterà sulla capacità di risposta al cambiamento accelerato e questo comporterà un orientamento dei sistemi di misura, controllo e rewarding nel senso del minore accentramento gerarchico (verticale) e di un maggiore coordinamento orizzontale “through process”. Si sposterà una certa quota di potere dalle figure di supervisione a quelle di integrazione.

Questa tendenza è rilevata anche dallo studio del BCG. La risposta alla domanda “ma tutta questa complicatezza produce valore? “ fornita da BCG, è che la complicatezza, pur generandosi da una spinta a migliorare le prestazioni aziendali, ottiene l’effetto contrario di incidere negativamente sulla velocità di risposta, sul tasso di innovazione, sulla motivazione delle persone, sulla capacità di risolvere problemi.

In altre parole ciascuna impresa può migliorare la propria competitività se riesce, a parità di complessità della sfida affrontata, ad essere un po’più semplice delle imprese concorrenti. E a perdere un po’di meccanicità a favore di una maggiore organicità.

Vediamo, nel filmato che segue, un’efficace presentazione dello studio della BCG.

https://www.youtube.com/watch?v=oNsMHIPAiw4

Estendere l’ombra del futuro

“Estendere l’ombra del futuro” è il titolo del capitolo (e della regola di semplicità) che ci sembra più interessante per le basi teoriche da cui si muove e per le conclusioni organizzative a cui giunge.

La regola intende creare feedback continui che facciano percepire alle persone le conseguenze del loro modo di gestire i molteplici obiettivi di performance “prima, più frequentemente e su un orizzonte temporale più lungo” di quanto avviene coi modelli di management tradizionali.

Affidarsi al principio “prima la strategia, poi la struttura” e alla speranza che l’allineamento strategico possa essere ottenuto e mantenuto in tutta la struttura comporta, oltre alla complicatezza organizzativa, il blocco della cooperazione orizzontale e, di conseguenza, una scarsa performance.

Seguendo il principio di “estendere l’ombra del futuro” dovrà essere accelerato il feedback continuo aumentando e modificando secondo necessità la frequenza delle interazioni, “collegando il futuro degli uni a quello degli altri e portando le persone a mettersi nei panni degli altri”. Come nell’esempio che portammo nell’ultimo post del Learning Talk dedicato al performance management, il musicista di un’orchestra o il giocatore di una squadra di calcio ricevono feedback continui durante l’esecuzione dal maestro d’orchestra o dall’allenatore in campo, ma anche degli altri musicisti o giocatori e dal pubblico.

L’allineamento strategico è stato un modello molto in voga nel decennio tra la metà degli anni ’90 e la metà degli anni ’00. Nel 1996 usciva “The Balanced Scorecard: Translating Strategy Into Action” di Robert S. Kaplan e David P. Norton e nel 2006, dagli stessi autori, usciva “Alignment: Using the Balanced Scorecard to Create Corporate Synergies”. I due libri, interpretando il principio che “la struttura segue la strategia”, prescrivevano alle aziende l’ implementazione di strutture, processi e sistemi come elementi di allineamento tra la strategia e l’esecuzione. Le “balanced scorecard”, per Kaplan e Norton, dovevano essere il cruscotto di più alto livello per controllare l’allineamento delle diverse unità organizzative alla strategia aziendale. Quest’approccio presuppone un sistema di controllo gerarchico e centralizzato e si affida all’allineamento delle unità organizzative per agire sinergicamente, con preferenza per le azioni allineate rispetto a quelle orientate autonomamente dalla voglia di cooperare con altre unità organizzative.

Robert Axelrod (“The Evolution of Cooperation”, 1984), si è dedicato invece ai sistemi auto-organizzanti distribuiti per i quali la cooperazione è la linfa vitale. Senza un comando centrale, il successo collettivo un tale tipo di sistema dipende la nascita e la durata del comportamento cooperativo. L’analisi seminale di Axelrod delle simulazioni del “dilemma del prigioniero iterato” ha suggerito una teoria della cooperazione “sulla base di una indagine su individui che perseguono il proprio interesse senza l’aiuto di un’autorità centrale per costringerli a cooperare tra di loro.” Alexrod (1984).

Axelrod ha infatti scoperto che nel gioco del dilemma del prigioniero (che fornisce un framework razionale per i problemi di cooperazione) è cosa diversa eseguire una sola tornata del gioco oppure reiterare la simulazione, quando i giocatori mantengono memoria delle iterazioni precedenti. Alla fine di molte iterazioni, la scelta cooperativa sarà favorita. In una logica evoluzionista, alle numerose iterazioni, le strategie cooperative sopravvivranno a quelle competitive.

Se i giocatori si aspettano di incontrarsi di nuovo, infatti, sono più propensi a cooperare rispetto a quando si tratta di incontrare una volta sola la controparte. “Il futuro può quindi gettare un’ombra di nuovo sul presente”, scrive Axelrod, “e quindi influenzare la situazione strategica attuale”.

L’emergere di cooperazione non dipende dalla coscienza o dall’amicizia, come Axelrod illustra attraverso esempi documentati e ragionamenti nel suo libro. Essa dipende da ciò che Axelrod ha soprannominato “l’ombra del futuro” (la probabilità e l’importanza dell’interazione futuro) e la potenza della reputazione del riconoscimento di altri giocatori e il richiamo del loro comportamento passato.

Il metodo e le origini di un’idea

L’idea della Smart Simplicity, di cui apprezziamo l’interesse applicativo immediato, è anche interessante se considerata in una storia delle idee manageriali. Storia di fatta da illuminazioni, da mode ma anche da tendenze di lunga durata. Il Boston Consulting Group, una delle Big Three della consulenza manageriale, dalla metà degli anni ’70 ha mostrato una predilezione per la prospettiva longitudinale e diacronica nell’analisi delle strategie aziendali. Ponendosi, in certi casi, l’obiettivo di analizzare, con ricerche su campioni molto numerosi di aziende e su lunghe sequenze temporali, i principi generali che stanno, concettualmente e gerarchicamente, al di sopra del particolare “stile strategico” adottato in un certo periodo. Come se si potesse definire una strategia per la scelta tra diverse strategie e come se queste tendenze fossero il frutto dello spirito del tempo. Questa attitudine ha consentito al BCG di creare alcuni framework che sono stati non solo dei “best seller” tra le idee manageriali, ma anche dei “long seller”. Come ad esempio la matrice di portafoglio, creata circa cinquanta anni fa, che ancora oggi, in tutte le business school, è chiamata Matrice BCG. L’idea della Smart Simplicity, che ci appare come un tantino decostruzionista, per la sua ambizione di smontare strutture, processi e sistemi appresi nel tempo da ciascuna impresa, ad una più attenta riflessione, si dimostra figlia ribelle di un’altra long selling idea creata dal BCG: la “curva d’esperienza”.

Il concetto di curva d’esperienza, creato negli anni ’70 del secolo scorso in BCG, si riferisce all’effetto del tempo e dell’apprendimento sulla performance. Al concetto di un miglioramento continuo “tipico”, risultante dai molteplici fenomeni di apprendimento che avvengono in un’azienda in un certo settore, BCG ha accompagnato la produzione di curve (performance/tempo) frutto dell’analisi della performance di un gran numero d’imprese, raggruppate tipologicamente. Le curve medie che si avvicinano asintoticamente alla perfezione, se rappresentate in scala logaritmica, sono delle rette con una certa pendenza. In base alla pendenza della retta tipica del proprio settore, usata come un abaco, si possono fare previsioni sulla propria performance futura e sapere se, rispetto ai concorrenti, si sia più bravi o più somari nel processo d’apprendimento. Oppure se si è nella media. Dagli anni ’70 in poi, per alcuni anni, queste curve immaginate e compilate dalla BCG sono state molto popolari. Poi si è cominciato a sentire un certo effetto dell’accelerazione del cambiamento sulle turbolenze dell’ambiente competitivo e sulle sollecitazioni alle strutture dei settori e delle imprese. Insomma quegli “abachi” e le pendenze di quelle rette, non erano più in grado di descrivere con un numero ciò che sarebbe stata la prestazione futura nell’orizzonte temporale di qualche anno. In presenza di discontinuità e disruption, nessuno avrebbe più potuto giurare che, tra x anni, i costi di produzione si sarebbero ridotti dell’ y % e tanto meno avrebbe potuto giurare sul valore giudicato dal cliente. Nel 2012 e nel 2013 il BCG sente l’esigenza di rivisitare le curve d’esperienza, che rappresentano il miglioramento continuo incrementale, con due idee nuove: la possibilità di avere una strategia “ambidestra” (M. Reeves, K. Haanæs, J. Hollingsworth, F. L. Scognamiglio Pasini, Ambidexterity: The Art of Thriving in Complex Environments, BCG.Perspectives, 2013) e la possibilità di saltare continuamente da una curva d’esperienza matura e una nuova curva d’esperienza (M. Reeves, G. Stalk, F. L. Scognamiglio Pasini, BCG Classics Revisited: The Experience Curve, BCG.Perspectives, 2013).

Una strategia “ambidestra” si dedica, da una parte, all’exploitation incrementale del potenziale delle proprie capability, dall’altra, allo stesso tempo, all’exploration di nuovi modi con cui i bisogni dei clienti potranno essere soddisfatti in futuro. Con la creazione di nuove capability che, al momento in cui sono create, nascono immature, cioè agli inizi del percorso di esperienza. In virtù di un’attitudine ambidestra e una capacità di disimparare quello che aveva appreso per apprendere altro, un’azienda come Netflix non ha aspettato di percorrere tutta la curva d’esperienza nel business della consegna di DVD per posta, saltando per tempo sulla curva d’esperienza dello streaming dei film. Saltando con tempestività sulla nuova curva d’esperienza, Netflix ha cominciato ad accumulare esperienza nello streaming prima degli altri e a costruire barriere di costo. Non è molto lontano questo approccio da quello della “dematurity” di cui, ad Harvard, parlavano Abernathy e Clark negli anni ‘80.

Ma di BCG si può dire, usando un concetto che ormai ci è chiaro, che è un’impresa molto esperta nel campo della gestione dell’esperienza e dell’apprendimento. Anche della propria. Con una certa sensibilità al momento in cui è necessario, iniziare un nuovo cammino d’esperienza e disapprendere quanto si è appreso prima. L’approccio della smart simplicity, invitandoci a disapprendere quanto abbiamo imparato e incorporato nelle strutture, nei processi e nei sistemi di controllo, è un approccio nuovo che farà la sua strada d’esperienza. La smart simplicity ci invita a tornare continuamente bambini, inesperti, ingenui, plastici ed esploratori del mondo. Il che rende la proposta molto gradita.

Conclusioni

Il libro fornisce una ricetta in sei regole per evitare che la complicatezza paralizzi l’organizzazione proprio nel momento in cui viene richiesta agilità e plasticità nella risposta ai molteplici requisiti, spesso contrastanti e velocemente mutevoli, di un ambiente competitivo sempre più complesso. Nel momento in cui sposto il peso dal coordinamento alla cooperazione, incentivo gli integratori più che i coordinatori, accresco in modo diffuso il potere nella direzione di consentire decisioni autonome di coordinamento orizzontale, finalizzate al soddisfacimento dei requisiti multipli e in un contesto meno rigidamente vincolato.

Ogni standardizzazione può essere una forma di apprendimento, perché diminuisce la variabilità degli esiti, aumenta la prevedibilità, e consente di downloadare da un archivio il comportamento organizzativo più adatto a una certa determinata situazione. La smart simpliciy, in coerenza con i nuovi principi che BCG propone sul mercato delle idee manageriali, ci invita a disapprendere ogni tanto quanto appreso a livello organizzativo. Quando? Quando è giunto il momento. E questo significa, oggi, sempre più spesso. Quell’”ogni tanto” diventa un “continuamente”.

La sensazione è che sto riducendo la “complicatezza” organizzativa ma, allo stesso tempo, ne sto aumentando la “complessità”. Perché il sistema costituito da due persone che agiscono seguendo il meccanismo di una procedura standardizzata e supervisionata da un capo, è più “meccanicamente complicato” ma meno “organicamente complesso” del sistema costituito da due persone che collaborano con obiettivi più sfumati. I requirement a cui deve rispondere ciascuna persona, ciascuna unità organizzativa e l’organizzazione tutta, sono molti di più e spesso contrastanti tra loro. Esattamente ciò che il “Complexity index” valuta come più complesso.

Una certa complessità esterna, che il fordismo aveva affrontato con la complicatezza interna di un orologio, si sposta di nuovo all’interno dell’organizzazione. Ma questa non è una cattiva notizia. E’ la sfida dell’intelligenza e della leadership diffusa. Ma anche, come afferma la terza regola, del potere diffuso.

Dunque “smart simplicity”, che tradurremmo come “semplicità intelligente”, è la semplicità di un’organizzazione che sa di essere complessa, perché deve fronteggiare sfide complesse. Ma che cerca di essere più semplice dei concorrenti.

Nella matrice che conclude il post ho provato a rappresentare il progresso organizzativo dell’ultimo mezzo secolo lungo la diagonale in cui le imprese hanno fronteggiato la crescente complessità con un adeguato livello di complicatezza organizzativa, in accordo con la formula che deriva dal modello meccanicistico dell’organizzazione. Lungo la diagonale è rispettata la formula che vale per il modello meccanicistico che, per fronteggiare una crescente complessità esterna, cerca di evitare la complessità interna, ricorrendo alla complicatezza: Complicatezza = 6N(6N-1)/2; dove N è il numero di esigenze da soddisfare.

Per gli autori del libro è giunto il momento di una risposta insieme complessa e semplice alla complessità: la “semplicità intelligente”. Che significa accettare tutte le esigenze del mercato ma rinunciare ad una certa quantità di esigenze di coordinamento interno. Facendo fronte alle esigenze multiple con l’integrazione e la cooperazione piuttosto che con la supervisione e il coordinamento.

Ma è non chi non veda, in basso a destra, la possibilità di precipitare nel baratro della complicatezza stupida di un’organizzazione kafkiana.

Le organizzazioni sono pronte? I sistemi educativi e i processi della formazione sapranno fornire persone, a tutti i livelli, in grado di prevenire e combattere la complicatezza, sapendo essere più complesse?

[1] Se volete prendervi la briga di controllare la formula, per vedere se esce effettivamente il numero 36 dovete considerare una macchina che soddisfa almeno 25 esigenze con 25 parti e raffrontarla con una che soddisfa 150 esigenze con 150 parti (il moltiplicatore sarà uguale a 36,2. Per N che tende all’infinito, il numero diventa esattamente 36. Per una macchina fatta di tre parti che soddisfa tre esigenze, se si moltiplicano per 6 le parti e le esigenze, l’incremento di complicatezza è di circa 38 volte. E’curioso notare che la curva di incremento della complicatezza nel tempo assomiglia ad una curva di apprendimento. Come se apprendere significasse diventare più “complicati”.

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