Project Management Agile per la Formazione (1)

Enrico Viceconte
11 min readApr 22, 2024

di Enrico Viceconte

Premessa

Un po’più di dieci anni fa iniziai a collaborare al “Bicocca Training and Development Center” diretto da Raoul Nacamulli che aveva creato un luogo di discussione unico tra i maggiori esperti di studi organizzativi e della formazione. Un progetto dell’Università Milano Bicocca che generò il volume “Oltre l’Aula”, un blog sui temi della formazione e il progetto di “L’Ecosistema della formazione” un libro edito da Egea Bocconi che rappresenta il testo più completo e in continuo aggiornamento sulla trasformazione della formazione.

Allora, in un “Learning Talk” del blog, ponevo a un panel qualificatissimo il tema della “formazione snella”. L’idea alla base della discussione era che la rivoluzione del “Lean Thinking” fosse inevitabile per la produzione di formazione. Anche per lo sviluppo di “tecnologie abilitanti” basate sul web e per l’emergere di modelli organizzativi che “ruotavano di 90°” l’organizzazione, da gerarchica, verticale e divisa in silos funzionali a orizzontale, cross-funzionale e orientata dal flusso di valore verso il cliente.

Nel decennio successivo alcuni principi del “Lean training” o, meglio, del “Lean learning” (essendo l’utente a “chiamare” attivamente verso di sé, secondo necessità e nel momento opportuno, i contenuti della propria formazione e non viceversa) sono entrati nella pratica comune senza bisogno di eccessiva teorizzazione, solo perché il pensiero “Lean” è più razionale di quello tradizionale. Per cui si è pubblicato poco di teorico sulla logica Lean per la formazione (come se fosse diventata un’ovvietà) e si sono trovati altri approcci degni di approfondimento capaci di generare innovazione nei processi di formazione. Ad esempio, il “design thinking” basato sull’ottimizzazione dell’esperienza dell’utente lungo tutti i “touch” di interazione. Tutto ciò mentre, a partire dal 2020, il lockdown pandemico non ha dato un forte incentivo a utilizzare tutto ciò che ci consente di lavorare e apprendere da qualunque luogo, collegati a qualunque luogo. Lo scossone del lockdown, tra l’altro, ha trasformato anche tutti quei processi di progettazione che richiedono il contributo di molti. Ovviamente anche i processi di progettazione della formazione.

Insomma, nel decennio a partire da quel Learning talk si è davvero verificata una rivoluzione nella formazione, scatenata da un concorso di fattori: l’iper-competizione che aguzza l’ingegno, la disruption digitale (che consente di dare più con meno grazie alle tecnologie ICT), l’emergere di nuovi modelli organizzativi, nuovi Value delivery systems e nuovi modelli di business e, infine, la sperimentazione forzata dell’”onlife” durante la crisi pandemica.

Ma, come ho avuto a dire in alcuni miei articoli, la rivoluzione è stata molto meno esplosiva di quanto ci si potesse aspettare. Un esempio è nel modo ancora goffo con cui si lavora o si apprende in gruppo a distanza, supportati dalle varie piattaforme di video conferencing. Un mancato decollo di “piattaforme” che si candidano ad essere “ecosistemi”, vale a dire universi che supportano applicazioni di terze parti per dare una infinità di soluzioni sulla tavolozza del progettista di esperienze formative. Lo sviluppo di tecnologie nuove utili per la formazione, come il metaverso, la realtà virtuale e aumentata, l’IA non sembrano produrre gli effetti ipotizzati. E forse, mi viene da pensare, questo è un buon segno e il segnale che ancora ci sia lavoro teorico da fare sui processi di insegnamento-apprendimento. Cosa che raccomandiamo di fare alla comunità scientifica che si occupa di apprendimento e di formazione.

Giunto ai settanta anni e incaricato di immaginare un modello innovativo per un segmento dell’educazione che va completamente inventato, quello dell’Istruzione Tecnologica Superiore, scopro che un’idea potente come quella degli “ecosistemi della formazione” non ha ancora prodotto i frutti promessi. Un’Academy condivisa, come una “Fondazione ITS”, non può che essere considerata un ecosistema in cui, assieme ai contenuti e alle metodologie formative, deve essere progettato il “business model” in cui imprese, scuole, organismi formativi, università, territorio, famiglie devono co-progettare gli artefatti formativi al centro dei processi educativi. Siamo all’anno zero. E, se vado a ripescare gli scritti di undici anni fa, vedo che l’idea del lean thinking debba essere ripresa. Anche perché, come nel caso del PNRR che ha riversato fondi su corsi e laboratori, spesso la fretta con cui si decidono e si devono “mettere a terra” investimenti partorisce costosi gattini che hanno difficoltà a sopravvivere.

Perché la formazione deve essere lean?

Riprendo i contenuti del mio articolo del 2014 in cui partivo, come spesso si usava fare allora dalla filosofia Toyota.

Il “toyotismo” (contrapposto al “fordismo”) applicato alla formazione significa concentrarsi sul valore per l’utente: apprendere esattamente le cose che servono e quando servono. In una visione più ampia del value delivery system il principio si applica anche agli stakeholder. Se vogliamo fare l’esempio di attualità di un’Academy ITS gli stakeholder diretti sono gli studenti, quelli indiretti sono le loro famiglie, le imprese che cercano personale di talento, le agenzie di lavoro, il territorio che vuol essere attrattivo per persone imprese, le università che possono ampliare la propria missione eccetera.

La formazione lean significa dunque: “dare di più con meno” a tutte le parti interessate, eliminando gli sprechi attraverso l’ottimizzazione del value delivery system.

Essere “lean” significa infatti;

• Essere focalizzati, in fase di progetto, su ciò che ha veramente valore (o value for money) per il cliente e gli stakeholder ,

• Far fluire, senza ristagni e inutili serbatoi nel processo, il valore richiesto (in logica “pull” piuttosto che “push”), evitando “colli di bottiglia” (capacità e risorse non sufficienti per garantire il flusso richiesto), il sovraccarico o il sotto saturazione della capacità produttiva: i cosiddetti “Mura”)

• Eliminare gli sprechi: i cosiddetti 7 “Muda”:

1) sovraproduzione e dimensione dei lotti standardizzati,

2) ridondanze inutili,

3) attese,

4) magazzini intermedi e work-in-progress (ad esempio un certo numero di contenuti formativi prodotti ma poco utilizzati)

5) spostamenti inutili delle persone, ad esempio discenti, docenti, progettisti tutor ecc.

6) spostamenti inutili dei materiali, delle informazioni e delle conoscenze,

7) difetti, errori, non conformità, non qualità, ri-lavorazioni, recuperi.

Accennavo allora, come esempio dei rischi della formazione “non lean”, alla crisi delle grandi Corporate University centralizzate (come, ad esempio, ISVOR e altre Academy), basate su economie di scala e di specializzazione settoriale).

Prevedevo, anche supportato dagli studi di Christensen di Harvard sulla disruption digitale del modello accademico, che sarebbero anche andate in crisi le grandi Business School accademiche, magari a favore di piccole Business School regionali. Previsione sbagliata per una serie di motivi che oggi mi risultano più chiari, nell’ottica della difficoltà di generare ecosistemi formativi locali. Come nel caso delle Academy ITS.

Tutto quello che scrivevo allora era frutto di un’ intensa attività di ricerca sul campo (in cui era coinvolto anche il gruppo di ricerca della Bicocca). Gli output della ricerca erano stati pubblicati nel volume per Franco Angeli “La formazione manageriale in una Learning Region”, dove “Learning Region” era il modo in cui allora chiamavamo un ecosistema territoriale della formazione. In appendice al volume era un “Manifesto della formazione manageriale”. Un manifesto ispirato dal lean thinking che era pensato per la formazione manageriale ma andava bene per la formazione tout court. Il pensiero lean suggeriva di considerare la crescente esigenza di nuovi modelli di formazione che rendano compatibile la piccola scala e la specificità con cui si manifesta il fabbisogno, con l’economicità della soluzione formativa sviluppata e con la qualità del processo di insegnamento-apprendimento.

Nel Manifesto invitavo a ricercare delle suggestioni nelle seguenti tendenze, ispirate al lean thinking e alle intuizioni di Calvino per il terzo millennio (riporto testualmente):

Rapidità: i servizi formativi saranno ripensati in modo da rispondere rapidamente e in modo puntuale a bisogni molto differenziati e variabili (customizzazione e just in time) grazie a modalità didattiche non convenzionali.

Esattezza: i contenuti saranno maggiormente granulari e saranno i problemi e i contesti, piuttosto che la tradizionale articolazione didattica disciplinare, a modellare i servizi formativi attivandone la realizzazione nel momento e nel luogo in cui il fabbisogno si manifesta nell’ottica della continuità e della compenetrazione della formazione con il lavoro (logica pull invece che push). Learning on demand.

Leggerezza: di conseguenza gli sprechi di risorse per la formazione saranno ridotti e le soluzioni saranno più leggere e mirate. Nell’alta formazione manageriale il perseguimento l’eccellenza nella didattica e nell’innovatività dei contenuti, piuttosto che costituire un fattore di maggiore costo, possono contribuire alla massimizzazione dell’impatto del momento formativo.

Visibilità: La valutazione della formazione sarà sempre più sull’impatto effettivo misurato in base al contributo che l’individuo formato (o la popolazione di individui formati) daranno al raggiungimento degli obiettivi aziendali. In altre parole, sarà valutata la tras-formazione più che la formazione includendo la formazione e lo sviluppo nei sistemi di performance management. (Nota di oggi: in seguito a tale convinzione focalizzai il mio contributo al volume “Ecosistema della formazione” al tema del performance management nelle imprese che hanno un “learning mindset”)

Molteplicità L’attività di consulenza e di coaching individuale sarà sempre più integrata a quella di formazione (nella forma del mentoring per l’ingresso in azienda, di consulenza per gli imprenditori, di training on the job e project working per tutti i livelli). Sarà crescente il ruolo di capi, colleghi, mentor e delle comunità professionali nella formazione delle persone e si moltiplicheranno i momenti di formazione informale. Tra tutti i provider di consulenza/formazione, aumenterà il ricorso a provider più piccoli, specializzati verticalmente in un certo settore, piuttosto che a grandi provider generalisti. Tali provider entreranno in un rapporto di partnership con le organizzazioni committenti.

Consistenza: Alla molteplicità di richieste diverse e dei possibili partner di formazione (una formazione sempre più granulare), a obiettivi sempre più mutevoli e spesso contrastanti, corrisponde la necessità di “tenere insieme” gli elementi della complessità attraverso una progettazione formativa basata sulla creazione di percorsi di apprendimento consistenti che sollecitino in modo organico le molteplici intelligenze della persona e consentano il bilanciamento tra obiettivi individuali e dell’organizzazione.

Concludevo le mie riflessioni di allora con delle domande agli esperti che partecipavano al “talk”, scrivendo: “Non è difficile trasporre i semplici principi “lean” ai processi di formazione-apprendimento e non sono mancati esercizi di questo tipo, soprattutto nell’addestramento operativo ma anche nella formazione manageriale. Ci si domanda tuttavia: il ripensamento della catena del valore della formazione secondo il lean thinking, abbandonando una naturale e fisiologica “ridondanza” dell’esperienza formativa, è veramente la via giusta per ripensare la formazione nella nostra era di cambiamento? Ed in caso affermativo: quali sono i percorsi virtuosi di formazione lean e quali le eventuali trappole connaturate alla formazione lean?”

A distanza di un decennio, vedo più “trappole” che percorsi virtuosi. Fra le trappole vedo ad esempio l’auspicata “granularità” dei contenuti, che avrebbe dovuto consentire l’“esatta” configurazione customizzata “su misura” della formazione, che ha prodotto una grande quantità di “pillole” di formazione. Alcune delle quali prodotte da “creators” indipendenti online che operano su piattaforme generaliste (Youtube, Tik Tok) o specialiste (Udemy) altre da aziende specializzate in contenuti digitali. Come se il mangiar bene possa essere sostituito da pillole nutraceutiche, artigianali o industriali. Così come le ragioni della “molteplicità” hanno prodotto una moltiplicazione ingiustificata di “coach” più o meno certificati. Gli esempi sarebbero tantissimi e la spiegazione di ciascun insuccesso potrebbe essere trovato applicando la teoria degli ecosistemi della formazione che si è andata consolidando solo nell’ultimo decennio.

Uno dei limiti dei vecchi approcci organizzativi (ma anche pedagogici e andragogici) alla formazione è stata la focalizzazione sui processi. Nella convinzione che il problema della formazione fosse o venisse fuori solo nell’aula (reale o virtuale, indoor, outdoor, a casa o sul posto di lavoro). Insomma, un problema che può essere riassunto così: “se sbagli la progettazione formativa e usi docenti e materiali scadenti per eseguire il progetto, il risultato sarà qualitativamente scadente.” Una logica che non metteva in discussione il modello tradizionale di gestione del ciclo di vita di un progetto formativo basato sulla sequenza: “1) Analisi dei fabbisogni: 2) Progettazione; 3) formazione; 4) Monitoraggio e controllo; 5) Valutazione della formazione; 6) lesson learned.

A tale modello corrispondevano innumerevoli tentativi di gestire un progetto formativo secondo il modello del Project Management. Quindi con una lodevole enfasi sul pianificare bene e sul realizzare quanto pianificato. Personalmente ho insegnato questi principi in molti corsi in cui invitavo ad applicare gli standard del PM ad un programma formativo, dividendo correttamente la fase di progettazione da quella delle quotidiane “operations” di una “commessa” formativa (processi amministrativi, logistici e didattici) in un “programma” complessivo contenente più progetti, che si svolge in un arco di tempo scandito da milestones. Sono sicuro che le indicazioni fornite a chi opera nel business della formazione siano state di una qualche utilità.

Ho cercato anche però sempre di rendere consapevoli gli attori della formazione che il modello tradizionale di project management, applicato alla formazione, presentasse diverse insufficienze. E che tali insufficienze fossero non tanto nel framework dei Project Management Professional, quanto nell’antiquatezza del modello di progetto formativo definito in temini di Analisi > Progettazione > Realizzazione > Valutazione.

Una rivoluzione andava fatta e tale rivoluzione consiste nel far convergere la mentalità dei “formatori e progettisti della formazione” con quella dei “Project manager della formazione”. L’evoluzione degli standard di PM, a partire dal 2023, è già nel Project Management Body of Knowledge. Come la pensa un PM di nuova generazione? Non perdiamo tempo a concentrarci sui processi di gestione dei progetti e sulle aree di conoscenza organizzativa che un PM deve padroneggiare! Pensiamo ai principi che ci portano a dare al committente la possibilità di estrarre valore dalle attività che intraprende. Personalizzando il metodo di project management alle effettive esigenze di chi beneficerà degli output del progetto. A chi progetta ed eroga formazione il messaggio è: rivedi il modo in cui produci la scheda tipo: Obiettivi formativi; Risultati attesi; Destinatari; contenuti; modalità didattiche; modalità di valutazione. Tempi, milestones e Budget a completamento.

Esiste un modo in cui può avvenire tale cambiamento di modo di lavorare, che coinvolge il “committente” e il “realizzatore” della formazione, condividendo il Project Manager che, tra di essi, deve integrare e compatibilizzare gli obiettivi dell’uno e dell’altro. Tale modo è il superamento di una logica “waterfall”, a cascata, con cui una commessa di formazione è concepita in favore di una logica “agile”.

Del passaggio della gestione dei progetti di formazione dalla logica “waterfall” a quella “agile” scriveremo nel prossimo contributo. A conclusione di questa parte, vorrei sottolineare che questa piccola rivoluzione rappresenta uno degli esiti di quel movimento del “Lean Thinking” che individuammo più di un decennio fa come fattore di cambiamento irreversibile anche nel comparto della formazione.

Ma poiché gli anni non sono passati invano, vorrei riprendere le premesse del “lean training”: “Il “toyotismo” (contrapposto al “fordismo”) applicato alla formazione significa concentrarsi sul valore per l’utente: apprendere esattamente le cose che servono e quando servono”. Riprendo questa premessa ricordando che oggi come allora chiunque si occupi seriamente di educazione non ignora la straordinaria importanza di quello che si apprende in modo non immediatamente finalizzato, magari con un’eccedenza e un’apparente inutilità di quello che si sta imparando. Come accade quando si studia il Greco al Liceo Classico o il calcolo infinitesimale allo Scientifico, o la letteratura italiana all’Istituto Tecnico, o la Meccanica Razionale ad Ingegneria o la Storia Economica a Economia. Un’eccedenza di cibo per la mente che ci appare poco “lean” solo dal punto di vista dell’utilitarismo più miope. Pensare in modo lean non vuol dire una specie di caccia agli sprechi o spending review, ma bensì una riflessione profonda sul flusso di valore che qualunque progetto deve essere in grado di attivare. Il valore di sapere le cose, di saperle fare, di saper essere e saper diventare, di saper far fare è nel creare connessioni spesso impreviste. In altre parole, l’apprendimento non è solo un processo per trasferire conoscenze ma per ben formare una mente. Il termine “educazione” (per la sua etimologia che si riferisce a un portar fuori da sé, far scaturire) è sicuramente più efficace di “training” e di “learning”. Il valore è lì e il lean thinking ci aiuta a raggiungerlo.

Riferimenti esterni

Smart è l’organizzazione, non il lavoro

https://prospettiveinorganizzazione.assioa.it/smart-e-lorganizzazione-non-il-lavoro-viceconte/

Gli ecosistemi della formazione e la riforma delle Academy ITS

https://www.linkedin.com/pulse/gli-eocosistemi-della-formazione-risposta-ai-soliti-degli-viceconte/?trackingId=aHjHlZlCSLS9tSMOSL%2FfhA%3D%3D

Ecosistemi della formazione: la formazione gestionale e pratica degli ingegneri

https://www.linkedin.com/pulse/ecosistemi-della-formazione-la-gestionale-e-pratica-degli-viceconte/?trackingId=WArd7sSuQ7K%2BH0Vq%2BC5tUA%3D%3D

La disruption dell’università è arrivata?

https://www.linkedin.com/pulse/la-disruption-delluniversit%25C3%25A0-%25C3%25A8-arrivata-enrico-viceconte/?trackingId=WArd7sSuQ7K%2BH0Vq%2BC5tUA%3D%3D

Luoghi e non luoghi della formazione manageriale (capitoli 1–4)

  1. https://www.linkedin.com/pulse/luoghi-e-non-della-formazione-manageriale-enrico-viceconte/

2. https://www.linkedin.com/pulse/luoghi-e-non-della-formazione-manageriale-enrico-viceconte-6096636538962141184/

3. https://www.linkedin.com/pulse/luoghi-e-non-della-formazione-manageriale-iii-enrico-viceconte/

4. https://www.linkedin.com/pulse/luoghi-e-non-della-formazione-manageriale-iv-enrico-viceconte/

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